Di Fernanda Ferraresso
da cartesensibili.wordpress.com, 2009
Parto da qui, dalle colonne dell’iride, colonie che Antonia Zecchinato, come fosse un gioco di magistrale semplicità e, per una specie di alchimia segreta e capovolta, mi ha inviato da un suo mondo che sta oltre, oltre le colonne, quelle di Ercole e del volo di Ulisse. Vi resto imbrigliata, come nella tessuta trama di una gabbia fondamentale. Lì, tra quelle forme, trovo e vedo innumerevoli segni:Le Courbisier e i suoi pilotis, le strutture dei grandi edifici orientali e delle metropoli d’occidente, le strutture di fantascienza, ma anche la teoria giapponese del “Feng Shui” (”vento e acqua”: a indicare due delle più importanti fonti energetiche terrestri) che consiste in una disciplina, scientifica e negromantica ,o rabdomantica insieme, contemporaneamente. E’ il maestro del “Feng Shui” che riesce a scoprire le virtù legate all’orientazione, persino quella di un edificio e gli aspetti della distribuzione spaziale di un locale. Orientare e orientarsi non riguarda perciò solo la navigazione per mare verso una meta, anch’essa, tra l’altro, possibile attraverso i medesimi elementi tessuti tra loro: l’acqua e il vento. Buona parte dei grattacieli di Hong Kong sono anche oggi costruiti tenendo conto delle indicazioni fornite dagli specialisti di questa dottrina. In una metropoli modernissima, anche i grattacieli high tech, sede di banche e altre attività economiche importanti, sottostanno, in parte, alle misteriose leggi di un’ antica tradizione semireligiosa. Leggi che tengono conto del Ch’ i come della “forza vitale” che “dà vita agli animali e ai vegetali, gonfia la terra, porta l’acqua attraverso i suoi condotti naturali, determina l’ altezza delle montagne, la qualità della fioritura, segue le strutture del Tao, inspirando ed espirando, condensandosi”. Una iridescenza che si stende davanti all’ affare o al fare affari, uno dei pilastri della finanza, dell’attuale relazione economica mondiale. Qui, in queste ortogonalità lungo i punti del cerchio, c’è il calcolo palese di una quota che si fa quoziente ritmico spaziale di un luogo abitato, o abitabile, che tiene conto di un rapporto tra la natura del luogo, quasi sempre, violentata, e della possibilità che l’oltraggio inflitto torni a chi, col suo attraversamento, non ha capito che era se stesso che penetrava.
Cicli e ciclicità delle storie, queste forme mi ri-suonano nella memoria echi e voci di passaggi segreti, foglie e fogli, percorsi compiuti da un Eracle o Ulisse o Platone o …, tanti, tutti coloro che, una le(g)genda, ha in qualche modo intessuto dei suoi gesti facendoli propri o traendoli dai propri.
Si racconta, per quanto riguarda Ercole, di come egli avesse accettato il compito di recuperare le mandrie di Gerione, che il pastore Eurizione custodiva nell’isola Eurizia, ai confini estremi dell’Occidente. Durante il viaggio per raggiungere quelle terre, Eracle aveva liberato la Libia da una moltitudine di mostri e, in ricordo di tali imprese, aveva eretto due colonne, da entrambe le parti dello Stretto, una a Ceuta e l’altra sull’opposta sponda, nei pressi di Gibilterra. Sempre secondo la leggenda, quando passò dall’Africa alla Spagna e raggiunse l’isola di Cadice, costruì lì un’alta torre, sulla quale innalzò una statua rivolta a Est, con una chiave stretta nella mano destra, come per aprire una porta. Sulla sinistra incise l’iscrizione : “Ecco i confini di Ercole”, come ad indicare il limite non valicabile delle terre note. La cartografia medioevale sembrò accogliere queste favole antiche fino al tardo1400 segnalando in molti planisferi le “colonne d’Ercole” in prossimità dello Stretto ma, via via che i navigatori si addentravano nell’Atlantico, le colonne venivano spostate sulle carte fino alle terre raggiunte per ultime, in-segnando in questo modo i sempre nuovi confini del mondo conosciuto, anche se, per molto, furono solo liquidi confini.
Nella Carta nautica anonima del XV secolo che si trova a Venezia, al Museo Correr, che riprende i motivi tipici degli archetipi medievali, viene rappresentato l’insieme delle coste del Mediterraneo e dell’Atlantico conosciute all’epoca. Ricca di annotazioni sulle caratteristiche dei luoghi illustrati, ne esibisce in particolare le Colonne d’Ercole, tracciandole nell’Oceano, a qualche distanza dallo Stretto di Gibilterra. Una fitta maglia di traiettorie, di rotte, solcano la mappa, rendendola quasi la rappresentazione prospettica di uno spazio narrante, in cui il narratore, forse, sta in quei centri, nell’intersezione del fascio di rette che si dirigono oltre l’occhio, verso mitiche terre, raggiungibili con navigazioni che usano imbarcazioni ben più complesse delle modeste barche di Ulisse o di qualsiasi altro eroe.
Questo è ciò che, ad un primo incontro, questi cilindri evocano in me, anche se, non nego, la loro visione evoca persino il cilindro magico da cui possono fuoriuscire personaggi insospettabili o i conigli di Alice, in una wonder-land in cui solo chi ha Maya con sé, in sé, può continuare il viaggio.
Non ci sono labirintici incroci, trame e nodi da scrutare nel loro animato groviglio, ma tessuti di estrema morbidezza e precisione, cangiante luminosità, addirittura “scivolosi”, come se volesse dirci qualcosa, l’artista, in sordina però e tangibile. Ci accoglie e ci avvisa, si sottopone al tocco e all’ascolto, credo suonino, questi rulli, come quelli all’esterno dei monasteri tibetani, quelle preghiere che circolano nell’aria, nel movimento impresso da chi le tocca, anch’esse colonne di conoscenza, del sé e del mondo, un ri-conoscimento di ciò che è unito o unisce tra loro i corpi, in una tessitura mirabile, morbida, e, allo stesso tempo, rigida-mente percepibile come in-valicabile. Colonne erranti o dell’erranza, legata o intrecciata al fenomeno, magico, della percezione visiva, in cui il mondo, costituito di ombre, entra, sos-pinto dalla luce che, effimera – mente, ce la rende tangibile attraverso i colori, lunghezze d’onda invisibili, ma percepite da chi occhi non è o non ha. Più che un luogo geografico, mi pare la grafia della frontiera, in cui, in una riscritta teoria dei limiti, il cono visivo prospettico si trasforma in cilindro senza fine, agli estremi del quale estremi sta solo l’in-finito. La relatività della collocazione delle colonne, che per i greci, attraverso Omero, stava a Est, all’ingresso del mar Nero, mentre il mito lo pone al limite dell’Occidente, non svaluta la storia e la sua tramatura su un ordito che resta legato al telaio dell’uomo e dei suoi spostamenti all’interno delle sue paure e delle sue peregrinazioni in un mondo che lo abita dentro, non solo lo circonda o lo ingabbia. La vista, ma ancora di più la paura di ciò che può nascondersi all’interno del vedere, è una delle colonie su cui piantare come grandi alberi, le colonne dell’iride, e l’arco dei sogni su cui imbarcarsi e prendere il mare.
A fondamento di questo percorso so che dovrei tornare indietro: dovrei mettermi a scavare. Dovrei ripensare alle colonne della percezione prospettica, alla conicità della struttura referente. E’ cosa nota a molti che la prospettiva sia una visione conica, non cilindrica, la sua struttura è cioè quella di un cono al cui vertice sta il soggetto osservante e, alla sezione del cono, perpendicolare all’asse del cono stesso, uscente dall’occhio di chi guarda, e opposto al vertice-occhio-io, sta il quadro, quello in cui si raccoglie appunto l’immagine…o… l’immaginario che di quelle immagini (con)teniamo in quel punto? L’osservatore, finito- statico(?), e l’infinito, mobile(?) raccolto lungo una linea di orizzonte che sempre si allontana, rintanandosi un po’ più in là, stanno in allineamento. Pianeti di una stessa luce che, l’uno nell’altro, flettono i raggi visivi illusori e quelli luminosi che arrivano dall’altrove, e oltre il suo mondo tangibile, da una favola, più che da una storia realmente accaduta, maturano visioni, si mettono in uno stato di eclissi, il cono d’ombra, come nuova gabbia visibile rende percepibile l’altrove. Davanti al cilindro di queste quattro gabbie, che mostrano un’ampiezza differente delle aperture del limite stesso, resto bloccata. Ho bisogno di qualcosa che mi sollevi e mi imponga una via meno allegorica, meno tetra o tetragona, in cui entri una parte considerevole di ciò che compone la massa sostanziale del visibile e del visto. Mi serve …un visto, per superare le colonne e consentirmi un po’ di sosta, un po’ di sollievo e di ristoro, magari in un luogo in cui si arrivi navigando da ovest rincorrendo l’est, come tana del sole, o… dell’ombra!
edul-cor-ante,…e-dul-corante, edulco-ran-te:in qualunque modo le si mastichi, restano dinnanzi a noi, queste architetture uscite, forse, dalla pancia di Ravi, dalle mani di Maya, tinti dai tramonti di un’India di teatri che sono scena della bellezza, di ciò che non si vede ma si trova per strada, in qualunque strada di quelle città, ed è vivo solo in chi riesce a vedere oltre, persino oltre la morte che materialmente intacca, tutto tocca. Lì o qui non è diverso. Il fiume, il fiume della vista o la rotta attraverso il margine dell’immagine, mi nutrono di qualcosa che vive oltre, nella conchiglia d’ombra di altre vie, di altre vite e leggende. In questi dolcetti, una specie di omaggio al dio, o architetture per un d’io che se ne va imperterrito a leggere le sue storie, all’interno di questi fraseggi di filo, srotolo, aiutata dai demoni, qualcosa che non mi appartiene se non per genere, genere umano intendo e lego il filo della navetta attorno al dito, per afferrarmi ad una di quelle imprevedibili imprese che posso, lo so, sento che posso, osando una scalata, o una scaletta, una chiocciola visiva e vorticosa che mi porterà sulla sommità del tempio, o del tempo, là, a quel preciso istante in cui luce e ombra si nascono l’una dall’altra e ripetono le gesta, erculee, della magia della visione. Posso toccare ciò che non c’è eppure vedo: lo tocco sul piano, del tavolo, in una bi-dimensione che, forse, mi facilita la descrizione del viaggio in ciò che mi abita e mi veste in ndimensioni. Un’architettura di memorie filate e te-se, se solo porgiamo loro attenzione che basti. Sulla rosa della scelta, in quel doppio piatto che sembrerebbe volerci narcotizzare l’intuizione e sollazzare il desiderio della gola, lì, m’imbatto proprio in ciò che l’illusione vuole giocare a mio sfavore. Sembra dirmi:- tuffati, mangiami, divor-ami, mentre la riduzione della scena è solo un raggio della vista di uno dei tre, di quella tri-ade, che scende nel mondo per crearlo e distruggerlo in continuo. Presso la religione induista, Vishnu (devanagari, IAST Viṣṇu) è la seconda Persona della Trimurti (chiamata anche Trinità indù, composta da Brahama, Vishnu e Shiva), all’interno della quale è conosciuto come il Conservatore. Viene più comunemente identificato con le sue incarnazioni, gli avatar (così consueti nei nostri viaggi internettiani), in particolar modo con Krishna e Rama . All’interno della Trimurti, Brahma è il dio della creazione, Vishnù della conservazione e Shiva della distruzione, necessaria per la successiva rinascita. La iconografia classica rappresenta Vishnù come un giovane dall’atteggiamento ieratico, in piedi, che reca in mano i suoi attributi principali: conchiglia, ruota, clava e fiore di loto (a volte sostituito dall’arco). La conchiglia (SANKHA) nelle mani di Vishnù è un’arma che la divinità utilizza nella lotta contro i demoni, che tremano atterriti quando ne odono il suono. Anche al giorno d’oggi ogni rituale è preceduto dal suono della conchiglia per allontanare i demoni malvagi. La ruota (CAKRA) rappresenta la ciclicità della vita ma simboleggia anche, essendo di ferro e quindi un’arma terribile, potenza e protezione. La clava è invece un’arma di difesa mentre il loto indica nella divinità che lo porta un alto livello gerarchico e simboleggia la fertilità dell’acqua e del ventre materno. Sul capo ha una corona regale, indossa gli orecchini MAKARA, a forma di rettile, ha sul petto la pietra preziosa KAUSTUBHA e infine è cinto da un cordone sacrificale. In genere gli orecchini indicano che chi li porta è “nato per la seconda volta”, cioè ha sperimentato una rinascita spirituale. Per le divinità gli orecchini sono tra gli ornamenti più significativi. E qui, nella piana del tramonto, dentro la rosa dei ventilati ventagli, serpenti o serpentine, dei coni e delle conchiglie deposte sulla riva del mio sguardo, scema una i-dea tutta occidentale di vedere ciò che ci sta di-fronte ed è, nella realtà di una surrealtà sempre vivissima, almeno doppio se non triplo o molteplice, qualcosa che non consumiamo “ a vista” ma di noi si nutre. Sul piano del tavolo, un’altra presenza in-quieta: l’antica visione del mondo accoglie l’ombra del globo, un piatto anch’esso, ma surrealmente e presente, in quella stessa modalità, in tutte le rappresentazioni dei cartografi o le descrizioni dei letterati o degli storiografi. Ogni dimensione aggiunta è un’ombra tragittata nella dimensione tolta, da quella volume-tria in cui il gioco delle divinità indiane o indigene scon-volge la visione del mondo in ogni tempo, o in ogni tempio del dio che si riforma, su un’ombra pre-cedente.
E ogni narrazione è un quaderno che sfoglia l’opera della mente e delle mani, scardina l’occhio e lo fa udente, come a percepire suoni di antiche maree o madri scordate, nel nubifragio delle mode e del tempo. Ciò che si piega più che la forza che declina le cose, cerca di scardinare una sintassi pervenuta da tradizioni antiche ma matriarcali, non materlineari, dunque disposte ad accogliere altri segni, altre lingue, verbi e gesti, facendone emergere contraddizioni e inciampi lessicali da capovolgere in qualcosa che è terra buona, per altra semina. Due, tra i molti lavori inviati dall’autrice di questi percorsi, Antonia Zecchinato, mi colpiscono profondamente. Dis-sonanti rispetto al dettato dei vocabolari comuni, quelli a cui ero solita fare riferimento nell’ambito della tessitura, mi hanno portato una eccedenza di senso e di dissenso, contemporaneamente, una specie di effetto a contrasto, come quello chimico che si usa per trovare, in anatomia, dei corpi altrimenti non visibili. Nel momento stesso in cui disegna e designa l’illusione della percezione, ne provoca la sua riconvocazione e allo stesso tempo lo smantellamento. Provoca quel cielo, profondissimo, che spro-fonda il piano del lavoro, poggiato su un piano non immediatamente rintracciabile dell’appoggio su cui è visibile. Un trompe l’oil che trama ciò che non esiste, che profondo non è ma pro-fondo si crea in noi, in un gioco di specchi, non davanti a noi, ma dentro di noi. Quei giochi geometrici dei pavimenti delle grandi basiliche o i soffitti intarsiati che sembrano avere spessori reali in quegli spessi ori che brillano una luce che non viene dall’oltre, ma è un altrimenti dell’essere.
Oltre l’onda / nel cielo del pozzo: potrebbero essere due versi della stessa lirica, in cui la tracimazione del senso è un’onda, che ci restituisce intero e integro il senso perduto della magia e intreccia aria ad acqua facendo dello stesso corpo due vite e una sola via, un sentiero nell’andare e venire, nella spola della creazione e della scomposizione. In entrambi i casi l’ eccedenza di senso rifiuta di soggiacere alla regola del mercato e a quella del sindacabile giudizio legato ad un valore mercantile, del costo e del prezzo di un oggetto che non si fa trovare, ma viene a scovare te che lo guardi e ti vedi, là tra le sue maglie, non cade nell’errore di ignorare la asimmetria della bellezza in cui nulla può porsi in riduzione e dis-eguaglianza, ma tutto in sè accoglie, necessitando in modo assoluto di chi la osserva, come corpo che dell’opera fa parte, e di questo vive, mutevole.
La rivoluzione è l’ermetica scrittura evolvente del nautilus che mi riporta alle colonne dell’inizio, una scrittura centripeta (ac)canto alla centrifuga, all’interno della stessa metafora terrestre in cui ci troviamo coltivati, tutti, vegetali, animali e minerali, fossili -vivi, e viventi. Una sedimentazione di colture che si fanno culture e curve del movimento instancabile delle forze. Vertici senza fisso asse, scansioni sempre, di qualcosa che è eccentrico e continuo, pur nei punti di discontinuità, come solo una armonia sa ri-comporre, anche quando un fulmine, a ciel sereno, porta scompiglio e tutto, in quel mare vasto di im-mobilismo cerca e crea la prossima porta, l’aorta di una pulsazione nel cosmo, senza frontiere e bandiere che non siano anch’esse spire, spirali e spiragli di qualcosa che ci con-voglia, ci co-involge in altri in-finiti luoghi, mondi e modi dell’essere.
Sotto-sopra-davanti-dietro-prima-poi: si s-fanno in questa elica di equilibrismi, in cui il colore elide il trascorso e si tramuta in una vertebra arcaica, il corpo stesso di quel mare di movimento da cui tutto si è e-voluto.
Dalle prime impronte:
anelli (di) iniziali forme, il DNA della vi(s)ta, la prima spora argonauta
al (li) ve(l)lo d’oro dello scorrere nel tempo tessuto di spazio
siamo ospiti in un un parterre di minime aiuole disposte ad arte in un giardino che fiorisce di cielo e terra, una orchestrata sinfonia, diretta da una mano platealmente maestra in … soluzioni alchemiche, as-soluzioni d’amore.
Ringrazio Antonia Zecchinato per la bellezza e la ricchezza del materiale inviatoci con grande generosità. Questa raccolta di opere, di epoche diverse, richieste ed esposte in importanti eventi d’arte, ha permesso una navigazione attraverso luoghi spesso non conoscibili da parte di molti, ha aperto scorci su paesaggi di grande morbidezza ma di non minore intensità espressiva tra i molti che l’arte, in tutte le sue espressioni, raccoglie.
arco …e tre frecce biografiche:
– Antonia Zecchinato si è laureata in architettura presso l’IUAV di Venezia
– è docente di Progettazione architettonica presso l’ISA P.Selvatico di Padova.
– Da molti anni si occupa di tessitura, investendo nella ricerca molte sue conoscenze provenienti dal mondo della progettazione e del design, oltre che una spiccatissima sensibilità poetica.